di Patrizia Cantini
La vitivinicoltura è il settore agricolo che più di ogni altro ha fatto proprio il concetto di terroir. I primi a porre l’attenzione sul terroir sono stati i francesi, seguiti a ruota dagli italiani. Oggi possiamo dire che Francia e Italia sono le nazioni viticole che più puntano sul terroir e sull’interazione tra vitigno e ambiente. Il settore vitivinicolo, che nella stragrande maggioranza dei casi è composto da aziende che rappresentano l’intera filiera (dalla coltivazione delle viti alla produzione del vino) costituisce una particolarità rispetto ad altri settori agroindustriali, che importano materie prime in quantità. Basti pensare alle industrie che producono farine o pasta con grano importato anche da altri continenti, oppure a quelle che lavorano il pomodoro. Queste industrie rivendicano il fatto che non sia la materia prima a fare la qualità di un prodotto, al contrario di quanto da sempre è ritenuto dai vitivinicoltori, che affermano senza ombre di dubbio che un buon vino può nascere solo ed esclusivamente da ottima uva.
Il professor Scaramuzzi, presidente dell’Accademia dei Georgofili, vede in questo atteggiamento da parte di tante industrie agroalimentari un rischio enorme per la vitivinicoltura italiana, e di quella che si basa sul terroir in modo particolare. Cosa accadrebbe se a livello internazionale si affermasse la visione di quelle agroindustrie che non considerano la materia prima come il primo fondamentale passo per la produzione di eccellenze? E può il mondo della ricerca dare fondamenti scientifici al concetto di terroir documentando la relazione tra ambiente e qualità di un prodotto? Per cercare di dare risposte a queste domande l’Accademia dei Georgofili ha organizzato una giornata di studio alla quale hanno partecipato tre docenti universitari ed esponenti del mondo della ricerca: Mario Pezzotti dell’Università di Verona, Luigi Moio ed Eugenio Pomarici, entrambi dell’Università Federico II di Napoli.
Il professor Pezzotti in particolare – del dipartimento di Biotecnologie dell’ateneo scaligero – ha preso parte al progetto italo-francese di sequenziamento del genoma della vite i cui risultati sono stati illustrati in varie sedi nel corso dell’ultimo quinquennio e ha a lungo studiato anche la “plasticità fenotipica della vite”. La plasticità fenotipica è la capacità di un singolo fenotipo di dimostrare più fenotipi a seconda dell’ambiente. Un semplice esempio è quello dell’ortensia, che reagisce al diverso pH dei terreni dando vita a fiori azzurri oppure rosa. Ma ci sono anche alberi che producono foglie dalla forma diversa a seconda della composizione del terreno. In campo viticolo, le variabili sono moltissime, basti pensare che anche all’interno di un solo grappolo le bacche appaiono visibilmente diverse. Per indagare l’effettiva interazione tra vite e ambiente è stato condotto un esperimento che ha visto coinvolta l’Università di Verona e 11 aziende della provincia che hanno collaborato per il triennio 2006-2008 con i ricercatori. Gli esperimenti di sono concentrati sul clone 48 di Corvina (il più diffuso in Valpolicella), esaminato nel corso delle tre annate in tre diverse fasi di sviluppo del frutto. Il primo importante risultato della ricerca non va certo a favore del terroir, perché è stato dimostrato che gli effetti dell’annata impattano più del singolo vigneto. Tra le tre annate prese in esame infatti c’era il 2007, anno che tutti ricordiamo per le temperature estive estremamente elevate. Tuttavia, Pezzotti ha sottolineato che il concetto di terroir non può essere cercato e stabilito in annate estreme. Altro elemento che ha creato variabili significative nelle uve prese in esame dal progetto è il tipo di allevamento della vite, che è risultato come un creatore di grandi variabili nella genetica della pianta e quindi dei frutti.
Insomma, sul terroir c’è ancora molto da indagare e su questo punto è sembrato d’accordo anche Luigi Moio, che da anni si interessa di identità sensoriale. Secondo Moio, negli studi sugli aromi del vino l’effetto del suolo non è stato per ora indagato a fondo e le ricerche si sono in gran parte concentrate su uve aromatiche come il Moscato, che ha un profumo caratteristico riscontrabile nella fase di frutto, di mostro prima della fermentazione e di vino. Le uve non aromatiche invece assumono il proprio odore caratteristico dopo la fase fermentativa. In altre parole, ci sono vini con forte identità varietale e altri che ne hanno una debole e instabile. Questi ultimi secondo Moio sono quelli più influenzati dal terroir, dalle pratiche agronomiche e da quelle enologiche. Moio è comunque convinto che il terroir resti un elemento fondamentale e a questo proposito ha portato l’esempio della Borgogna. In Borgogna ci sono sostanzialmente due vitigni, il Pinot Noir e lo Chardonnay, che vengono allevati da tutti con gli stessi sistemi e vinificati secondo le medesime pratiche. Allora, la grande variabilità dei vini della Borgogna non può che essere imputata al terroir.
Infine, il professor Pomarici – che nella sua relazione si è concentrato sul tema del marketing e dell’innovazione come pilastro della nuova politica comunitaria nel settore del vino – ha concluso come l’unica strada da percorrere per far crescere in valore il vino italiano sia quella dei vini di territorio. Questi infatti sono portatori di elementi positivi come tradizione, coerenza stilistica, legame con un luogo specifico, eccellenza sensoriale e sostenibilità.