Con l’entrata a regime dei piani di controllo anche sulle Igt il quadro del sistema vino Italia inizia ad avere contorni sempre più precisi. Facciamo alcune considerazioni, partendo prima dalle Dop.
Quelle che fanno massa sono poche: su un totale registrato di 403 tra Doc e Docg, 76 (ovvero il 19%) fanno il 92% della produzione imbottigliata a livello nazionale (pari a 11,5 milioni di ettolitri). Letto al contrario, l’8% dei volumi imbottigliati è frammentato tra 327 denominazioni: il che equivale a una media di poco meno di 3.000 ettolitri per ognuna Do. Di queste 327, la stragrande maggioranza poi sta nella classe di produzione fino a 5.000 hl, per cui l’imbottigliato per singola Do scende a poco più di 1.000 ettolitri. All’opposto, sopra il mezzo milione di ettolitri di imbottigliato troviamo solo 5 Do, 18 tra 100 e 500.000 hl.
Questo per quanto riguarda le Dop. Per le Igp, i piani di controllo entrati in funzione ad agosto 2012 consentono di fotografare il fenomeno con un certo dettaglio: per le Igp in capo a Valoritalia, nell’anno che va fino al 31 luglio 2013, sono state rivendicate uve per 8,4 milioni di quintali. Travasati in ettolitri secondo le rese potenziali massime, si arriva a un dato produttivo grezzo di 6,7 milioni di ettolitri. Di questi, ciò che è finito in bottiglia è pari a 5,2 milioni di ettolitri, un dato ovviamente comprensivo anche di prodotto delle annate precedenti e aggiunte consentite da disciplinare, considerato che si sta parlando di “imbottigliamenti nell’anno”. Con buona approssimazione, il totale Igt nazionale che finisce in bottiglia potrebbe arrivare a circa 10 milioni di ettolitri.
Con gli 11,5 milioni di ettolitri di vino Dop, il totale Igp-Dop che realmente arriva alla bottiglia si aggira attorno ai 20 milioni di ettolitri.
Da questi dati partiamo per fare qualche considerazione in più rispetto alla tabella della concentrazione delle Dop vista sopra. Il valore commerciale del nostro settore si regge su una manciata di denominazioni e di vitigni, di chiara matrice macroterritoriale. Li abbiamo riassunti nella tabella qui sotto: da una parte grandi vitigni trasversali, come il Pinot grigio, o radicati profondamente in un territorio, come il Lambrusco e – per via del vissuto che l’ha generato – il Prosecco, Doc-vitigno o vitigno-Doc o vitigno tout-court a seconda di come lo si percepisca da parte dei consumatori. Poi viene la schiera delle grandi denominazioni (i due Chianti, il Montepulciano, Asti e Moscato, Soave e Valpolicella, includendo anche il Toscana Igt), e i grossi “serbatoi” del Sud: da una parte Doc-Igt territoriali (Sicilia – Terre Siciliane), dall’altra vitigni (Negroamaro-Primitivo in Puglia). Insieme, questa pattuglia di vini fa circa 13 milioni di ettolitri, ovvero due terzi dei 20 milioni di ettolitri di vino Do/Ig che finisce realmente in bottiglia.
Fonte: elaborazioni Corriere Vinicolo su dati enti di certificazione, Mipaaf
* Stima
** Igt e Doc
Questo per quanto riguarda l’offerta, a cui possiamo come vertice di una piramide immaginaria aggiungere i vini dal grande blasone, come Brunello, Barolo eccetera. Sul lato domanda, sappiamo che il nostro export è concentrato per più di due terzi in pochi mercati: Nordamerica, UK, Germania, Svizzera, Giappone. A cui si può aggiungere la grande scommessa/incognita cinese.
Considerata la concentrazione di offerta e domanda, il sistema Paese ha finalmente l’occasione di porsi un obiettivo, operare una scelta strategica definitiva, ovvero dotarsi di un piano nazionale di sviluppo del settore vino sulla falsariga di quello che hanno fatto cileni, australiani, argentini e compagnia, i quali nel corso degli ultimi anni hanno focalizzato i propri asset e concentrato l’offerta, mirando Paesi specifici con prodotti specifici. Un piano nazionale che – laicamente – concentri gli sforzi promozionali di un ipotetico “brand Italia” su questi prodotti e su questi mercati, perché i numeri sono la fotografia delle scommesse fatte dalle imprese e del consenso trovato presso gli operatori internazionali, l’unico elemento che rende sostenibile l’intero comparto.
Un piano nazionale di sviluppo deve insomma prendere atto di chi sono oggi gli ambasciatori del made in Italy enologico e a loro dare la responsabilità di aprire nuovi mercati e consolidare quelli esistenti. Ma soprattutto creare le condizioni perché questi vini e le aziende che li producono possano competere al meglio: in ambito Ocm, visti i risultati dei primi cinque anni e le criticità espresse da molte realtà locali, ciò vorrebbe dire ricalibrare la quota di promozione Stato-Regioni, redistribuire la parte dei fondi alle regioni secondo i criteri di massa visti sopra, ascoltare le imprese che in questi anni hanno dimostrato di saper spendere i fondi con efficacia, tarare le modalità di attuazione dei programmi sulle esigenze che esse sapranno esprimere mercato per mercato. In una parola, mettere a fuoco e razionalizzare.