“L’aver attribuito, con la riforma del Titolo V della Costituzione, alla competenza delle Regioni alcune materie rilevanti per lo svolgimento delle attività di impresa che richiedono una disciplina unitaria ha determinato un proliferare di ordinamenti diversi sul territorio e una moltiplicazione dei centri decisionali, che ostacola l’avvio e lo svolgimento delle attività di impresa. (…) È essenziale riformare il Titolo V della Costituzione per riportare alla competenza esclusiva dello Stato materie che richiedono una disciplina unitaria, tra le quali l’energia, le grandi reti e infrastrutture”.
Questo è un passaggio del Manifesto redatto da Confindustria per il rilancio del Paese. Era settembre, in carica c’era il Governo Berlusconi. Oggi, al posto di primo ministro siede Mario Monti, ma la discussione su che cosa sia prioritario per il Paese rimane. Anzi, per l’agricoltura, pur non citata esplicitamente nel documento confindustriale, proprio il nuovo Governo, chiamato a fare nient’altro che riforme, può essere l’occasione per ricominciare ad avviare una seria riflessione su che cosa ha comportato in questi dieci anni il decentramento alle Regioni della responsabilità legislativa e se non sia il caso di provare a mettere sul piatto – in maniera laica e senza posizioni manichee – benefici e svantaggi. Perché oggi – pur con un mandato a orologeria – ai vertici del Ministero c’è un signore che per esperienza e curriculum potrebbe essere quello adatto per raccogliere le istanze, avviare un confronto e fare la summa delle varie posizioni emerse. Con l’esito da lasciare in eredità al prossimo governo di matrice politica. E con qualche correttivo da attuare da subito, senza per questo avviare per forza la macchina della riforma costituzionale.
Insomma, se l’agricoltura si riconosce tra le “materie che richiedono una disciplina unitaria”, come definite dal testo confindustriale, l’occasione per fare qualcosa è quella giusta. I segnali, dopo tutto, ci sono e da tempo. Si tratta appunto di metterli in fila. Ultimo in ordine cronologico è stato il presidente di Confagricoltura, Mario Guidi, che – caso o meno – il giorno prima dell’appello della Marcegaglia (29 settembre, seminario delle Federazioni di categoria) diceva testualmente: “Occorre una politica agricola nazionale. La Conferenza sull’agricoltura, che si terrà a Cremona a metà novembre, dovrà ragionare in primo luogo sul fatto che manca una linea strategica, con la materia demandata in via esclusiva alle Regioni che, in molti casi, hanno creato parecchie incongruenze, norme non correlate e contraddittorie, conflitti istituzionali spesso sfociati nell’immobilismo. La riforma del Titolo V della Costituzione, che ha attribuito competenze specifiche all’ente regionale, sarebbe auspicabile e necessaria, ma almeno bisogna rendere più efficace il coordinamento”.
Una posizione chiara e netta, estrema se vogliamo, perché nessuno si nasconde la difficoltà di riportare le lancette del tempo indietro di dieci anni, rischiando di perdere pezzi del contesto in cui si muove l’agricoltura oggi. E’ questo per esempio il pensiero della cooperazione, riassunto dal presidente di Confcooperative-Fedagri, Maurizio Gardini: “La storia dei rapporti tra Stato e Regioni in materia di agricoltura è sempre stata difficile e ha vissuto momenti di tensione non indifferenti dagli anni Settanta a oggi passando per il referendum abrogativo del Maf degli anni Novanta, fortemente sostenuto dai governi regionali. Possiamo certamente dire che siamo favorevoli a una riforma del titolo V della Costituzione che restituisca allo Stato alcune competenze specifiche soprattutto allo scopo di migliorare e rafforzare la nostra posizione Paese in Europa e applicare in maniera uniforme la normativa comunitaria. Non dimentichiamo però che l’agricoltura comprende delicate materie come l’ambiente e la salute, per cui una riforma del titolo V non potrà consistere solo in un semplice passaggio di competenze, ma dovrà comportare una vera e propria riforma del diritto agrario e ambientale”.
Contraria invece a riformare la Costituzione è la Confederazione nazionale agricoltura, anche se il presidente Giuseppe Politi ha ben chiari i problemi sul tappeto: “Attualmente paghiamo un eccesso di regionalismo in varie materie, come per esempio nelle relazioni interprofessionali. Occorre in generale un maggior coordinamento nazionale, nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni. Tuttavia ritengo inopportuno in questa fase pensare a modifiche costituzionali”.
Pur con ricette diverse, emerge un’evidenza: le maggiori organizzazioni agricole sono d’accordo su un punto: così come è oggi, la governance in agricoltura necessita di correttivi. E le spiegazioni sono le più varie: chi in questi anni si è cimentato con la richiesta di finanziamenti in tema di Ocm o Psr ne sa qualcosa. Facciamo solo esempi, ricavati dal nostro settore. Innanzitutto, l’impossibilità pratica di fare la cosiddetta “compensazione”: una volta che le somme sono allocate a una regione, lì restano. L’impresa che chiede fondi deve spenderli all’interno della regione, anche se lo stabilimento a cui vorrebbe destinarli sta in un’altra. Discorso simile per le diversità di approccio delle varie misure: prendiamo quella degli investimenti, che l’anno scorso ha avuto una lunghissima gestazione proprio a causa della necessità di demarcare quello che era stato messo dalle Regioni nei Psr da quello che invece sarebbe finito nel Psn. Con il risultato che la misura partì in ritardo ma soprattutto con notevoli differenze tra una regione e l’altra. In Francia, come abbiamo visto sul Corriere Vinicolo in un servizio dedicato, la questione non si pose proprio: avendo una gestione centralizzata, si fece una demarcazione netta e valida per tutti.
Ancora per rimanere nel nostro settore, la diversità di come vengono attuate le misure delle ristrutturazioni, con vincoli diversi a seconda del confine geografico, così come le estirpazioni o le vendemmie verdi, che vanno dal possibile con riserva all’impossibile tout-court. Per finire con la promozione, dove gli sbilanciamenti e le restrizioni tra una regione e l’altra sono stati oltremodo evidenti, e puntualmente indicati ancora dal nostro giornale. L’esempio più eclatante fu il Veneto, che il primo anno ammise a finanziamento solo il Soave e il Prosecco.
Ma poi, chi non ricorda la questione dei diritti di reimpianto, dove ogni regione ha la sua norma particolare, tra chi ha blindato e chi no, causando anche qui evidenti squilibri tra produttori di aree diverse. Per finire, e salendo di un gradino, pensiamo al potere di veto che le Regioni hanno in Conferenza. L’ultimo caso che ci viene alla mente fu la questione della costituzione del magazzino fiduciario presso le imprese per la gestione delle fascette: approvata al tavolo di filiera con il Ministero, cassata dalla Conferenza Stato-Regioni.
Per rimanere in ambito amministrativo, quello dei controlli, ricordiamo ancora quanto affermato dall’ispettore capo dell’Icqrf Giuseppe Serino a una recente assemblea della nostra organizzazione, sulle difficoltà incontrate per arrivare a un coordinamento sulle competenze, con l’Ispettorato chiamato a fare 20 protocolli diversi, uno per ogni regione.
La lista delle incongruenze insomma è lunga, e merita che il comparto dell’agroalimentare (e del vino nello specifico, che è prodotto trasversale più di ogni altro) incominci a porsi, se non l’obiettivo della riforma costituzionale, proprio il traguardo di un maggior coordinamento tra funzione centrale e amministrazioni regionali, valutando costi e benefici di come funziona la macchina. Traguardo che se raggiunto renderebbe poi superfluo il problema se riportare l’agricoltura in competenza esclusiva o concorrente. Di questo parere per esempio è Federvini, che – nelle parole del suo presidente Lamberto Vallarino Gancia – “condivide il documento di Confindustria, ovvero la riforma della Costituzione è materia sulla quale occorre riaprire un approfondimento, anche se temo che il Governo in carica non possa mettere questa riforma fra le priorità. Oggi tuttavia è certo che vi sono delle diversità di applicazione e gestione dell’agricoltura a livello regionale: talvolta, però, più che un difetto dell’attuale Titolo V, si ha l’impressione che si tratti proprio di un mancato coordinamento. In alcuni processi decisionali l’obbligo del passaggio attraverso la Conferenza Stato-Regioni introduce un elemento di rallentamento in condizioni normali, ancor più forte quando si è in presenza di consultazioni nazionali o regionali che determinano lo slittamento di qualsiasi calendario”.
E su quale possa essere il ruolo del nuovo ministro, Gancia ha le idee chiare: “Certamente un ministro come Mario Catania, grande conoscitore della ‘macchina’ nazionale e ottimo testimone e attore dell’ambiente comunitario, anche in fasi complesse come quelle relative alle trattative per la riforma della Pac, è persona ideale per suggerire opportune correzioni al sistema. Ma anche in questo caso dobbiamo tener conto di quale sia il calendario che ci attende: la discussione della Pac è già partita e la valutazione di metà percorso dell’Ocm vino ci attende per l’anno prossimo. Dunque al di là della riforma del Titolo V, è auspicabile che il coordinamento operi da subito con piena convinzione ed efficienza da parte di tutti gli attori”.
Proprio la riforma Pac è uno dei temi caldi su cui è strategico arrivare con posizioni concertate e soprattutto con un’applicazione sul campo il più uniforme possibile, onde evitare sul nascere problematiche poi di difficile risoluzione. Pensiamo, come ci hanno suggerito autorevoli esponenti delle associazioni agricole, alle assicurazioni agevolate, misura che la Commissione europea ha introdotto per la stabilizzazione del reddito: pensare che queste vadano nei Psr, con l’opzione per la regione di attivarle o meno, potrebbe davvero rischiare di vanificare lo spirito della norma. Stesso discorso per i pagamenti disaccoppiati.
Ma la stessa Ocm vino, attesa alla revisione di medio termine, è altro argomento che necessita di una regia unitaria: facciamo un esempio pratico e immaginiamo che domani scatti la liberalizzazione dei diritti di reimpianto. Che cosa succederà? Formalmente, l’Italia potrebbe decidere di prorogare il termine fino al 2018, ma non è escluso che qualche regione invece – essendo la legislazione agricola propria competenza esclusiva – applichi alla lettera il regolamento Ue e decida di liberalizzare. Oppure, potrebbe darsi la situazione contraria: l’Italia liberalizza subito, ma qualche regione decide di prorogare al 2018. Sarebbe il caos. E fioccherebbero i ricorsi alla Corte costituzionale.
Insomma, il confronto con le Regioni va riaperto, è questo il messaggio unitario delle associazioni di categoria, “perché l’agricoltura – sintetizza il presidente di Unione Italiana Vini, Lucio Mastroberardino – necessita da una parte di una visione strategica di portata nazionale e dall’altra di correggere le evidenti storture createsi in questi dieci anni. Questo non vuol dire essere contro le Regioni o avere una politica anti-federalista, anzi, il contrario, significa applicare modelli di federalismo che in altri Paesi dimostrano di funzionare egregiamente, come in Germania, dove Stato federale non significa rinuncia a una politica federale e unitaria in tema di agricoltura”.
Titolo V e dintorni
Un tema all’ordine del giorno (da troppo tempo)
Sono parecchi anni che il Parlamento discute – senza peraltro mai giungere a una conclusione – sull’equilibrio dei rapporti tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V. Ultima in ordine di tempo l’iniziativa svolta in questa legislatura dalle commissioni congiunte Affari costituzionali del Senato e della Camera dei deputati, che avevano avviato un’indagine conoscitiva sulle questioni inerenti proprio al processo di revisione costituzionale in materia di ordinamento della Repubblica. Era stato organizzato un ciclo di audizioni con le associazioni di categoria dei vari settori produttivi. Era il 7 giugno 2010, e per la parte agricola erano state convocate Cia e Confagricoltura, le quali avevano entrambe elencato le problematiche sorte dopo il decentramento. Citiamo la Cia, che con Cristina Chirico, membro della direzione nazionale, così affermava: “Sarebbe opportuno probabilmente razionalizzare il nuovo Titolo V della Costituzione alla luce dell’esperienza maturata. E’ opportuno che vi sia una maggiore concertazione e un maggiore raccordo tra Stato e Regioni per l’attuazione delle politiche comunitarie regionali, come nel caso delle scelte legate ai Psr, senza dover prevedere un raccordo centrale o un’unificazione dell’aspetto decisionale; ci sembra opportuna una maggiore capacità di programmazione concordata tra Regioni e Stato”.
“Confagricoltura – diceva invece Giorgio Buso, responsabile dell’area legislativa – desidererebbe in primo luogo che l’agricoltura fosse materia di legislazione concorrente e, in secondo luogo, che fra le materie di esclusiva competenza statale fosse compresa l’organizzazione comune dei mercati. La responsabilità nei confronti dell’Unione europea sull’organizzazione comune dei mercati deve rimanere in capo allo Stato. Per l’agricoltura proponiamo la legislazione concorrente perché prendiamo atto di ciò che avviene attualmente o che è avvenuto nella passata legislatura, perché il legislatore nazionale è intervenuto diverse volte su una materia che teoricamente sarebbe di competenza esclusiva delle Regioni, con il consenso delle Regioni stesse e della Conferenza Stato-Regioni, con leggi che riguardavano esplicitamente l’agricoltura e con leggi-delega che hanno prodotto diversi decreti legislativi. Dunque è la stessa realtà legislativa che ci porta a chiedere che l’agricoltura venga spostata nell’elenco delle materie concorrenti”.
Un inciso per dire che con il nuovo presidente Guidi, eletto nel 2011, Confagricoltura ha dato quindi segno di aver radicalizzato la propria posizione, dal momento che ai tempi in cui fu fatta l’audizione il presidente era Vecchioni.
Ma andando ancora più a ritroso nel tempo, fino al 2002, quindi a un anno dall’entrata in vigore della riforma costituzionale, è ancora la Commissione Affari costituzionali del Senato ad avviare un’indagine conoscitiva “sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V della parte II della Costituzione”, convocando i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Non se ne fece poi nulla, così come a nulla approdò la Commissione parlamentare per la semplificazione della legislazione voluta nel 2008, dove al termine dell’audizione di Cia, Copagri e Coldiretti, il presidente, senatore Andrea Pastore, disse a proposito di Titolo V: “Occorre intervenire in questo ambito con un opportuno provvedimento legislativo che auspichiamo possa essere definito, al fine di mettere riparo anche ai problemi di conflittualità determinatisi a causa della scarsa chiarezza sui diversi ruoli”.