di Anna Bigano
Che il biologico andasse sempre più forte a tavola si sapeva da tempo; la novità, però, è che ora il trend si registra anche nel bicchiere. I dati Iri dicono che nella sola Gdo il segmento di vini e spumanti bio valeva nel 2015 dieci milioni di euro, con un fatturato in crescita del 40% rispetto all’anno precedente. Se il vino bio va forte all’estero (soprattutto nei Paesi del nord, tradizionalmente sensibili al tema), il successo pare dunque destinato a consolidarsi anche sul mercato interno, grazie a consumatori giovani e sempre più attenti a scegliere un prodotto percepito come salutare e sostenibile, oltre che buono.
“L’Italia è il primo produttore di cibo biologico al mondo, ma questo non si riflette ancora pienamente nei consumi”, osserva Daniele Piccinin, che dell’argomento se ne intende, visto che la sua azienda Le Carline di Pramaggiore (Ve) segue i dettami dell’agricoltura bio dal 1988, ancora prima che il settore fosse normato dal primo regolamento europeo, nel 1991. “Forse dipende dal fatto che da noi, in genere, si mangia già sano, i controlli ci sono e sono rigorosi, cosa che non sempre si può dire dei Paesi stranieri”.
La svolta, in campo enologico, è avvenuta pochi anni fa: mentre in passato i vini potevano essere etichettati soltanto come ottenuti “da uve biologiche”, dal 2012 sono autorizzati a riportare il termine “biologico” e il relativo logo dell’Unione europea, che li rende immediatamente distinguibili. L’accordo, frutto di un compromesso fra Paesi appartenenti a regioni geografiche e climatiche diverse, ha rappresentato comunque una solida base di partenza per lo sviluppo del settore. Da allora un numero sempre maggiore di produttori ha iniziato a convertire le vigne all’agricoltura organica: oggi in Italia le superfici vitate bio coprono oltre 72 mila ettari, il 10,3% del totale, e piazzano il nostro Paese al secondo posto in Europa dopo la Spagna, che ne conta 84 mila, e prima della Francia, ferma a 66 mila. A livello regionale, si conquistano un posto sul podio italiano la Sicilia (27 mila ettari nel 2014, il 38% del totale, in crescita del 43% rispetto al 2011), la Puglia (10 mila ettari, +22%) e la Toscana (9 mila, +46%).
Fatto il grande passo
non si torna indietro
L’esperienza delle cantine mostra che, almeno in Italia, il vino bio si può fare quasi a qualsiasi latitudine: lo dimostra il caso Ferrari, che sta convertendo al biologico tutti i suoi vigneti e ha già pronte in cantina le prime bollicine certificate. “È vero, produrre bio in Trentino è più difficile che in Sicilia – ammette il vicepresidente Marcello Lunelli – anche se per noi il problema maggiore è che non siamo autosufficienti, dobbiamo interloquire con 500 conferitori e spingerli ad abbracciare la nostra visione”. Per Lunelli, tuttavia, una volta fatto il “grande passo”, tornare indietro non ha più senso: “I risultati qualitativi ci sono e sono convinto che i mercati ci daranno ragione: forse non con un differenziale di prezzo, ma escludendo poco a poco i vini non bio”.
I dati che vengono dall’estero sembrano dargli ragione: la Svezia, ad esempio, dove il Systembolaget detiene il monopolio statale per gli alcolici, ha fissato come obiettivo per il 2020 quello di arrivare ad almeno il 10% del vino biologico sul totale delle vendite, ma l’asticella potrebbe essere alzata al 20% data la rapidità con cui si sta raggiungendo la soglia del 10. E se la Svezia rappresenta il quarto Paese di destinazione del vino bio italiano (6%), ancora meglio fanno la Germania, che da sola assorbe il 38% del nostro export, gli Usa (15%) e la Svizzera (9%). I produttori si aspettano per i prossimi anni una crescita del fatturato a doppia cifra, anche grazie ad altri mercati promettenti come Giappone e Canada.
Il rovescio della medaglia è che “fare bio” ha rese minori e costa di più, fra il 15 e il 25% rispetto a un vino tradizionale, a seconda del vitigno, del terreno e dell’azienda. Così, sebbene anche i piccoli produttori riescano a beneficiare dell’aumento della domanda, sono soprattutto i medio-grandi a poter sostenere gli investimenti che il passaggio al bio comporta. “Per convertire 168 ettari in Piemonte a noi sono serviti otto anni di studi – racconta Federico Ceretto, dell’omonima azienda langarola –. Non si può produrre tutti gli anni la stessa cosa nello stesso modo, e questo si traduce in un maggior rischio d’impresa”.
Fare sistema
La sfida adesso è fare sistema e creare un maggior coordinamento istituzionale per la promozione dei vini bio, la cui mancanza rappresenta un ostacolo per un’impresa su quattro fra quelle che oggi non esportano. Non sedersi sugli allori, insomma, ma consolidare la crescita anche dei consumi interni, per far sì che quello dell’agricoltura organica non sia soltanto un fenomeno di passaggio, “motivato magari dalle sovvenzioni regionali, che sarebbe un grande paradosso”, osserva Roberto Pinton, consigliere delegato di FederBio. Le premesse, comunque, sembrano buone. Del resto, per Pinton, l’entusiasmo del pubblico è giustificato: “Non essendoci trattamenti chimici in vigneto, i produttori devono fare attenzione alla qualità delle uve. Tirando le somme, il vino bio è di qualità superiore”.