“Quando si dice “troppa grazia”! Il Moscato d’Asti Docg, da sempre considerato il fratello minore dell’Asti (83 milioni di bottiglie nel 2011), nonostante ne abbia sempre condiviso prima la Doc e poi la Docg, da qualche anno sta lievitando oltra ogni più rosea previsione. Anche senza i dati consuntivi delle vendite del 2011 la tendenza è fin troppo confermata: + 28,7% le bottiglie prodotte rispetto al 2010. E intanto la produzione veleggia con il vento in poppa oltre i 25 milioni 600 mila bottiglie nel 2011. Un exploit che dura da qualche anno e che ha visto crescere il Moscato d’Asti docg dagli 11 milioni e 775 mila bottiglie del 2008 ai quasi 26 milioni attuali. Una produzione più che raddoppiata in 4 anni.
Ma la singolarità del fenomeno non sta solo nei numeri. Come ormai è noto, il Moscato d’Asti docg, al contrario dell’Asti Docg, sta cavalcando in pieno l’onda lunga della “Moscatomania” scatenatasi negli USA da qualche anno a questa parte, tanto da essere arrivato ad esportare solo sul mercato americano oltre il 50% dell’intera produzione, con un incremento delle vendite nella grande distribuzione del 46% nell’ultimo anno. Non è poco, se si considera che il Moscato d’Asti Docg in questo canale riesce a spuntare prezzi medi attorno ai 15 dollari a bottiglia, circa 11,50 euro (dati Consorzio dell’Asti su Nielsen Usa), il che vuol dire esattamente il doppio di una qualunque delle 21 milioni 580 mila bottiglie di moscato di produzione indigena. O di un moscato di recente produzione australiana. O di un qualunque altro moscato italiano. Perché ormai il moscato per il mercato americano lo fanno tutti. Significa che il Moscato d’Asti docg, sul mercato americano, ha molto da guadagnare. O molto da perdere, a seconda dei punti di vista. La pressione sui prezzi comincia a farsi sentire e da più parti, ma soprattutto da parte dei produttori artigiani, si sottolinea che all’aumento in quantità ha fatto riscontro un calo in valore delle bottiglie.
Alla conferenza di presentazione della manifestazione “Facce da moscato”, organizzata a Torino nel primo fine settimana di dicembre fra Palazzo Madama e i caffè storici della capitale sabauda, presenti quattro noti giornalisti e operatori di mercato americani, il fantasma delle bolle Lambrusco e Soave, esplose in USA tra gli anni ’80 e ’90, è stato evocato senza troppi complimenti. E ha stoppato brutalmente le velleità di allargamento della zona di produzione di almeno mille ettari ventilata, non si sa se a titolo personale, dal presidente del Consorzio di Tutela dell’Asti Paolo Ricagno. L’hanno detto chiaro i quattro convitati ospiti del Consorzio, vale a dire Joshua Green, direttore di Wine&Spirits, Anthony Giglio, giornalista e scrittore di guide del vino, Kerin O’Keefe, giornalista e sommelier, collaboratrice di Decanter, Gregory Dal Piaz, blogger ed enotecario: se il Moscato d’Asti vuol mantenere il suo vantaggio di prezzo sul mercato USA, non è ai fans del rapper Kanye West, autore del remix di “Make her feel good” all’origine di tanta popolarità del Moscato d’Asti, che potrà spillare dollari. Non ai bevitori, dunque, ma agli “amatori”, come li ha definiti Dal Piaz. In che modo? Ad esempio approcciando meglio il suo consumatore, a partire da etichette che raccontino di più un territorio candidato a diventare patrimonio Unesco, secondo Greene. O spiegando bene che il Moscato d’Asti è “naturalmente dolce e aromatico”, senza zuccheri aggiunti e aromi sintetici, secondo O’ Keefe. Ma soprattutto convincendo gli americani che solo il Moscato d’Asti è “lo Champagne dei Moscato”, come l’ha definito Giglio. Non sarà una gara facile. A meno che qualcuno non si decida finalmente a sdoganare quei diversi milioni di euro, destinati alla promozione, da tempo congelati nelle casse del Consorzio.